Viaggi nel guardaroba

Viaggio dopo il terremoto

Dopo il terremoto terribile che ha distrutto Amatrice, un paese storico del Lazio, migliaia di persone hanno visto le foto del disastro sui giornali e su internet. Il bel paesaggio delle colline, al confine tra Lazio, le Marche e l’Umbria, ha visto tanto dolore e sofferenza. Vogliamo invece raccontare della cultura, le tradizioni e il ricco patrimonio artistico di Amatrice. Abbiamo chiesto all’antropologa Maria Luciana Buseghin di raccontarci della storia e della cultura del paese smarrito.

Oggi vogliamo dedicare uno spazio di memori e affetto ad Amatrice, paese della Sabina, terra di antichissime tradizioni nell'alto Lazio, un paese che non c'è più a causa del devastante terremoto del 24 agosto. La Sabina attuale è terra ricchissima di usi e costumi perché partecipa dell'eredità culturale e storica di regioni vicine: Abruzzo, Marsica, Umbria, e Roma antica e moderna.   Amatrice è conosciuta nel mondo per gli spaghetti "alla amatriciana", conditi con pepe nero o peperoncino, pecorino, grasso e "guanciale" di maiale, pomodoro. Alcuni sostengono che si tratti di una preparazione antichissima tipica della cucina dei pastori che praticavano la transumanza: la "gricia" a base di strutto, guanciale, pecorino, pepe nero, ingredienti che i pastori portavano con sé nella bisaccia. L'aggiunta del pomodoro è naturalmente recente ma fortemente entrata in tutta tradizione gastronomica popolare italiana. Gente da ogni parte accorre ogni anno alla sagra di questa pasta che si sarebbe dovuta tenere proprio in questo week-end: domenica 28 a Torino, in Piazza San Carlo Slow Food organizza una spaghettata di solidarietà per raccogliere fondi per i terremotati e anche a Perugia propongono un'iniziativa simile. Da oggi ristoratori di mezzo mondo doneranno una piccola parte del costo del piatto ad Amatrice.

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Chiesa di San Francesco, Amatrice

Chiesa di San Francesco, Amatrice

Questo delizioso paese appenninico conservava Importanti opere d'arte, tra cui un particolare affresco in cui sono raffigurati una Sibilla, figura profetica tipica della cultura mediterranea antica e medievale, e alcuni personaggi, tra cui due che sono stati interpretati come i poeti Virgilio e Dante o piuttosto come il re Davide e un angelo biblico: Albero di Jesse realizzato nel 1390 circa da uno sconosciuto maestro di scuola marchigiana o abruzzese per la chiesa di S. Francesco di cui è crollato il tetto e le cui opere sono fortemente a rischio.

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Nella tradizione popolare locale, proprio ad Amatrice emergeva dal sottosuolo una via sotterranea, che solo S. Benedetto conosceva: l'unica via d'uscita dal mondo incantato della Sibilla Appenninica che viveva in un grotta sul Monte Sibilla tra l'Umbria e le Marche e attirava nel suo paradiso cavalieri alla ricerca della verità e viandanti curiosi che imprigionava per l'eternità.

Sibilla e Virgilio, detaglio del Albero di Jesse

Sibilla e Virgilio, detaglio del Albero di Jesse

Viaggi e ispirazione con uno studente italiano

Come si crea una collezione di moda? L’anno scorso, uno studente italiano, Daniele Bellonio, ha contattato Ilana. Daniele studia moda alla IUAV di Venezia, e ha fatto anche un periodo di studio all’accademia Bezalel di Gerusalemme. Ci siamo conosciuti su Instagram, e ci siamo poi incontrati a Tel Aviv. Una serata d’autunno, quando Ilana ha visitato la biennale a Venezia, ha incontrato Daniele per una conversazione sul design, la moda e l’ispirazione.

Daniele ci ha poi raccontato del suo lavoro di tesi, che ha completato di recente. “Interessato a tradurre ulteriormente i risultati ottenuti a livello curatoriale, ho fotografato e composto l’apparato visivo di un’intervista a cui sottoporre una serie di fashion designer, in un’indagine sulla complessità creativa contemporanea. Alla base di questa scelta, di questa ricerca di condivisione, vi è la particolare situazione culturale e universitaria con cui ho avuto la possibilità di confrontarmi in Israele e che mi ha permesso di sperimentare una dinamica progettuale nella quale la partecipazione sia una forma alternativa (e spesso risolutiva) del design della moda.”

Per Daniele, in Israele la moda, i designer e i musei sono più organicamente connessi che in Italia. "Un atteggiamento che accomuna tanto i grandi spazi museali (Design Holon Museum di Tel Aviv, Israeli Museum di Gerusalemme) quanto le realtà universitarie, come la Bezalel Academy of Fine Arts and Design, nel coinvolgere i suoi curatori, insegnanti, fashion designer, con l’ambizione di creare un modello in cui i ruoli professionali si aggreghino fino a confondersi. L’approccio al fashion design di stampo israeliano, ha confermato al contempo una personale esigenza di orientamento, in cui la sensibilità verso la curatela e lo styling non si esaurisca soltanto nell’esibizione della moda e del suo pensiero ma supporti con sovrapposizione di immagini, concetti e astrazioni, in un percorso emotivo e curatoriale.”

Daniele ha creato nel suo progetto dei collage mescolando le creazioni di Ilana, e le immagini d'epoca della Samarcanda, la terra natale degli antenati di Ilana.

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Ilana è stata una fonte di ispirazione per Daniele, che racconta: “Sono molteplici gli aspetti del suo lavoro che mi affascinano: il suo lavoro è radicale, nella duplice accezione del termine. Da un lato si rifà alle origini, alla tradizione sartoriale e alla cultura mediterranea, dall’altra cura e progetta l’immagine di una donna radicale, distaccata dai fenomeni di consumo, ormai alla deriva. A tale proposito, nelle sue collezioni, Efrati riflette sulla duplicità, sull’aumento dell’identità che l’abito dona a ciascuno lo indossi, elemento riscontrabile sin dalle oculate scelte di materiali e di ostruzione dell’abito.”

Considero il lavoro di Ilana Efrati, dice Daniele, una riflessione ampia che attraverso la moda si muove dagli spazi museali all’attività di giornalismo, fino alle sperimentazioni naturali sui tessuti. Risponde all’intervista via mail qualche settimana dopo il nostro incontro: sceglie il completo blu e nero perchè le piace la combinazione dei colori, mi consiglia di provare a mescolarli in un’azione di curatela di moda, dimensione con cui lei stessa si è più volte confrontata. Certamente esiste un’affinità tra questo consiglio, la sensibilità di Ilana Efrati e Fare una collezione di moda.

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Mizrah-Ashkenaz, an exhibition on fashion and identity

Mizrah-Askenaz è mostra collettiva su moda e identità in Israele che si inaugura a Tel Aviv a marzo 2016. La mostra ha invitato Ilana a presentare la sua interpretazione dell'identità israeliana.

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Le due provenienze etniche, l’oriente (Mizrah) e l’occidente (Ashkenaz) rappresentano due categorie identitarie con cui si misurano gli israeliani. I contrasti e i conflitti tra queste identità formano una parte importante del discorso pubblico israeliano attuale. Per la prima volta in Israele, la mostra invita gli stilisti a definirsi, Ashkenazi o Mizrahi, e a riflettere sulla loro identità.

Nel suo lavoro da stilista di moda, Ilana pensa sui vestiti come una parte della sua identità personale e collettiva israeliana. Nella mostra, ha scelto di associarsi con Mizrah, l’oriente, perché vede Israele come una società occidentale situata nello spazio orientale. Ma la sua opera cerca di enfatizzare l'incontro culturale che sta alla base dell'identità israeliana.

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Il lavoro di Ilana utilizza una storia personale per cucire assieme la storia concettuale del cottone come tessuto da divisa uniforme di operai e coloni con il tessuto di seta tinto a mano, che ricovera una tradizione Ikat.

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Ilana ha creato un cappotto ispirato da indumenti storici familiari provenienti da Samarcanda. H ha scelto di realizzare il cappotto da un tessuto di cottone semplice in colore khaki, dal genere realizzato dalla storica fabbrica israeliana di tessuti ATA (chiusa nel 1985, ha ispirato una linea di vestiti disegnata da Ilana negli anni 1995-2005). Alla fine del ‘800 si usava produrre da questo tipo di tessuti le divise dei coloni europei in Asia e Africa. In Palestina, questi tessuti ricordano le divise dei soldati durante il mandato britannico. Negli primi anni di Israele, il khaki era un modo di vestirsi socialista e egualitario, che cancella le differenze di etnia, classe e provenienza. Infatti, questo stile di vestirsi ha cancellato l’identità culturale degli immigranti, soprattutto dai paesi orientali.

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L’imbottitura del cappotto è realizzata in seta disegnata a mano ispirato ai tessuti Ikat. Ilana riflette sul impatto dell’immigrazione e dell’occupazione fisica e culturale dello spazio sul vestire. Le variazioni si esprimevano nei tessuti esterni, diventati più consueti con i gusti occidentali, mentre le imbottiture mantenevano i disegni del tessile etnico tradizionale. L’oriente, nei vestiti, si nascondeva nell’interno, nell’imbottitura.

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La forma tradizionale del Kaftan del vicino e estremo oriente non riporta distinzioni di genere. L’abito è fatto di linee dritte che ignorano la forma del corpo femminile. Ogni paese o regione ha interpretazione particolari del vestito tradizionale, esprimendosi nel collo, il tipo del tessuto, le decorazioni, i ricami, etc. Ilana ha reailzzato questo abito in cottone colore khaki. Il tessuto cancella la caratterizzazione etnica del abito e permette a chi lo porta (l’immigrante) di assimilarsi nel nuovo mondo che aspira all’occidente. Ilana ha ripreso il passato attraverso ‘toppe’ di seta dipinta e cucita ispirandosi alla tecnica Ikat. Il lavoro riflette sull’evoluzione che ha notato negli abiti di sua nonna, nata a Samarcanda e immigrata a Gerusalemme, da abito kaftan in seta Ikat colorata, portata nella sua città natale, a un abito della stessa forma ma in tessuti occidentali, realizzato a Gerusalemme.

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La mostra è stata un’occasione per Ilana di riflettere criticamente sulle origini visuali dell’identità israeliana, pensando alla moda come un tentativo di definire una nuova identità collettiva. Inoltre, attraverso le creazioni della moda, Ilana ha potuto dare spazio ai vestiti dimenticati, marginalizzati dalla società israeliana nel suo tentativo passato di unirsi intorno a un nuovo concetto della nazione, creato dall'incontro delle diverse identità etniche e culturali.

?Perchè scriviamo

Ci è stato chiesto molte volte cosa ci spinge a scrivere questo blog, e perché ci siamo impegnate così tanto a cercare e fotografare tutto ciò di cui scriviamo. Per quasi cinque anni abbiamo pubblicato ogni sabato un articolo, sempre senza profitto o supporto commerciale, con il solo obiettivo di arricchire il dibattito culturale sulla moda, i viaggi e i vestiti.

בד מודפס של אילנה אפרתי, 2014

una tela stampata, Ilana Efrati 2014

Pensiamo che sia molto importante discutere di fashion design da un punto di vista non commerciale. Mentre nel dibattito inglese questo è un punto di vista accettato, in quello Israeliano è stato accettato meno. In un mondo in cui le relazioni pubbliche e la pubblicità sono il fattore dominante nel definire il modo in cui le persone vivono la propria vita (cosa compriamo, dove andiamo, cosa mangiamo e di cosa parliamo), noi contribuiamo a rompere questo schema condividiamo le nostre idee senza intermediazioni. Senza la mediazione di giornalisti, editori e o altri che scelgono selettivamente cosa riportare e, inevitabilmente, si lasciamo molto indietro. L’aspetto democratico di internet ci ha dato l’opportunità di aprire il nostro diario di viaggio al mondo.

אנחנו מציעות מבט חד על חומרי הגלם שמקיפים אותנו

bisogna ripensare le materie prime

Crediamo che sia importante scrivere soltanto di posti e cose che abbiamo visto con i nostri occhi. Spesso viaggiamo per comprare materie prime per le nostre creazioni artistiche, per parlare a conferenze, per piacere o per vedere nuove mostre e nuovi luoghi.  Dovunque andiamo scopriamo nuovi tesori di design, tessuti, e materiali su cui poi scriviamo. Non tutti i luoghi sono segreti o nuovi, ma molti sono nascosti a coloro che non li cercano. Forse l’obiettivo del nostro magazine è incoraggiare i lettori a prestare attenzione alle bellezze che ci circondano.

מפעל בדים ביפן מתוך התערוכה של איסי מיאקה, מוזיאון העיצוב בחולון

una fabbrica di tessile giapponese, dalla mostra di Issey Miyake a Holon

Abbiamo scoperto che ci piace scrivere per noi stesse e liberare le nostre idee nel dialogo con i lettori. Scambiare idee, conoscenze e esperienze con amici, clienti, studenti e con il resto dell’industria della moda in Israele e nel mondo è per noi motivo di grande soddisfazione.

I nostri viaggi sono iniziati per un bisogno estetico e pratico. Quando Ilana entrò nel mondo della moda nel 1985 la scelta nell’importazione di tessuti in Israele era scarsa. In mancanza di una industria locale, Ilana ha viaggiato per le città del tessile in Europa in cerca di materiali. Da allora abbiamo viaggiato nei luoghi della storia dell’industria tessile, circondati da continue bellezze estetiche, da qualità e alta tecnologia. Per noi cultura e industria sono strettamente legate l’una all’altra. L’industria aiuta a creare i materiale di base di cui si nutre la cultura del design. Oggi quando compriamo un prodotto in un negozio conosciamo poco dei materiali o del processo di produzione, e ci sembra di aver anche perso quel “tocco culturale” che ci permette di riconoscerne istintivamente la qualità.

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camicie di origami disegnate da bambini nel museo del design di Holon

Nel mondo del tessile in Europa abbiamo incontrato esperti nella tessitura di seta, cotone e lana. Ci hanno raccontato di cosa li ispira e del loro modo di lavorare. Il nostro magazine è anche uno strumenti per preservare e condividere le loro storie. I nostri materiali hanno viaggiato a lungo: dalle fabbriche italiane al nostro studio di Tel Aviv. L’incontro tra materiali, climi, culture e popoli è stato una inesauribile fonte di ispirazione e ci ha portato a voler conoscere di più la storia del commercio, del tessile e della tintura.

בכל מקום יש אסטתיקה מעניינת

ogni cosa può ispirare aesteticamente

Infine, e prima di ogni altra cosa, questo magazine si è occupato di design. Il vero design nasce dal bisogno che sentiamo di aggiustare, migliorare e cambiare l’esistente. Forse quelli che non vedono il bisogno di design si stanno lasciando sfuggire le idee che scorrono nel mondo. Per questo, noi speriamo di incoraggiare i lettori, attraverso parole e immagini, a trovare nuovi interessi e fonti di ispirazione, a prestare attenzione a chi fabbrica i vestiti che indossa, a ciò di cui sono fatti, a come influenzano l’ecosistema (sono riciclabili?) in cui viviamo, a come è stata realizzata la strada in cui viviamo e alla tonalità del che riempie il cielo di questa notte. Tutte le idee, i colori, i materiali che riempiono le nostre storie sono state immaginate per meravigliarci, insieme, ogni settimana e farci scoprire alcune delle nostre avventure anche riposando seduti sul divano di casa. Forse allora anche voi vorrete fare un viaggio nel guardaroba.

Camicie comuni: un progetto con l'artista Nurit David

Ilana racconta il suo progetto congiunto con l'artista israeliana Nurit David (www.nuritdavid.com)

Una nuova mostra dell'artista Nurit David è sempre un'esperienza visiva sorprendente che dà ispirazione e stimolo intellettuale.

Ai primi di maggio ho incontrato David a Givon Gallery di Tel Aviv, alla sua mostra ispiratata dal suo trasferimento da Tel Aviv a Haifa.

I lavori sono carichi di immagini delicate e intriganti, dipinti su grandi tele in colori ariosi del rosa. Nurit non mescola i suoi colori sulla tavolozza, come gli artisti di solito, dice con un sorriso che ha comprato tutti i tubetti di colore rosa che il fornitore aveva in magazzino.

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Le tele parlano un linguaggio ricco di immagini visive: una ricchezza di motivi grafici, campioni tessili, le onde e le navi provenienti da porti immaginari, le bambine, i modelli giapponesi, demoni che ballano una danza felice e timidi 'piedi di vergine'. Ho trovato nella sua pittura una forte presenza del mondo tessile, facendo eco a esempi astratti del vestito classico: kimono giapponese e un modello in bianco e nero simile al tessuto francese chiamato "zampe di gallina". Nurit crea un linguaggio unico utilizzando delle lettere inventate. Mi ha mostrato la sua interpretazione della lettera Aleph, e il proverbio Aleph Aleph, che significa prima qualità. Faceva parte del logo di una famosa marca di abbigliamento lavoratori ATA, che ha ispirato l'abbigliamento in cotone che ho disegnato sin dagli anni novanta. Questa leggendaria fabbrica era situata alla periferia di Haifa, la città degli operai dimenticati.

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L'incontro con il linguaggio simbolico di Nurit ha impostato le basi per il nostro nuovo progetto di collaborazione in base alle stampe che Nurit ha esposto nella mostra, e sulla mia collezione di camicie di cotone bianco.

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La trama del tessuto di cotone, la tela in questo progetto, è piena e ricca, il suo colore bianco è fresco e brillante. Amo questa materia prima nobile, la tabula rasa che avvia il processo di creazione. Iniziamo selezionando il tagli e abbinandoli con le stampe che Nurit ha preparato per il nostro progetto. Penso ai sentimenti che avevo in galleria quando ho visto i dipinti di Nurit. Ognuna delle stampe di Nurit corrisponde, nella mia immaginazione, ad una camicia bianca specifica che integra l'impressione creata dal dipinto. Il nostro lavoro comune è trovare il modo migliore per esprimere l'interazione tra le camicie e le stampe.

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Uno dei protagonisti della pittura di Nurit è una ragazza presente-assente, una misteriosa figura che nasce da un'emozione dolce. Ho tagliato una camicia con collo rotondo e maniche a sbuffo corte sulle quali sarà una bella stampa di Nurit di 'piedi di vergine'. Ho scelto bottoni grigi, una volta acquistati in un mercato delle pulci francese per completare la sensazione di timida infanzia.

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L'immaginario di una fiaba giapponese prende vita con un modello di kimono rosa, stampato sul rivestimento per una giacca stile Est-Ovest con maniche aperte come un kimono.

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Le navi nel porto di Haifa e le loro strutture architettoniche sembrano di volare come dei grattacieli sopra l'acqua. Queste immagini presentano su una T-shirt in cotone croccante. Nurit inviato via email me immagini di onde stilizzate sono fatte di pattern tessili che si abbinano perfettamente il pannello laterale di un nuovo vestito minimalista ho progettato. Il modello di faccine in rosa affumicato è stato posizionato intorno ai polsini di una camicia minimalista con un collare stile origami a pieghe, che riflette bene le idee e i modelli giapponesi di Nurit.

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Nurit ha preparato una collezione di 'patchwork' fatta di propri disegni tessili in due composizioni di verde chiaro e rosa. Specialmente per me, ha aggiunto una profonda ombra Bordeaux, che si adatta esattamente per decorare una bella camicia bianca. Abbiamo aggiunto bottoni d'epoca (dagli anni Trenta), in una spirale di filo di seta rosa.

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Alla fine del processo creativo, che attraversa i continenti e mari, Nurit e io abbiamo creato nove camicie uniche che sono state presentate a giugno alla Galleria Givon su Gordon Street a Tel Aviv. La collezione completa l'estetica della bella mostra di Nurit, e offre un altro modo per pensare al suo mondo creativo.

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Le camicie sono state esposte presso la Galleria d'Arte Givon, e sono ora in mostra nella mia boutique a Tel Aviv. Sono in vendita in edizioni limitate numerate e firmate.

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foto: ilana Efrati e Nurit David, tutti i diritti riservati 2014.

Un viaggio tra identità e vestiti

Che cosa dà a un indumento la sua identità? I vestiti ottengono la loro identità dal loro design, stile e qualità, o dalla persona che li indossa? Recentemente, abbiamo letto un libro affascinante che arricchisce la nostra conoscenza della moda, i costumi e la storia. Il libro, pubblicato in inglese e in ebraico, si chiama The Jewish Wardrobe, il guardaroba ebraico, a cura di Daisy Raccah-Djivre e Esther Juhasz, con Noam Ben-Yossef Baram. Il libro si concentra sulla storia del vestito ebraico in diversi paesi del mondo, e indaga le implicazioni culturali, sociali e religiose della moda. Il libro mostra come l'abito ebraico era in alcuni casi un segno di repressione da parte delle autorità locali. Altrove, invece, era un segno di separazione autoimposta, segno di orgoglio nella diversità. Attraverso la storia del vestito ebraico il libro ci incoraggia a pensare più in generale sull'influenza reciproca tra la nostra identità e gli abiti che indossiamo.

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Il tema dell'identità e del vestito è particolarmente marcato nel contesto dell'immigrazione e del passaggio da una cultura ad un’altra. Esther Juhasz discute nel suo capitolo sugli “strati di identità” dell’abbigliamento come segno di appartenenza ad una comunità che crea lo sfondo sociale per la vita dell'individuo, anche quando lui o lei emigra in un nuovo paese. Senza dubbio ci sono molti modi per trovare la propria identità attraverso il vestito: alcuni hanno sottolineato la separazione e la diversità, mentre altri hanno cercato di accelerare il processo di integrazione e accettazione. Alcuni indossavano con orgoglio i capi che hanno portato dal loro paese di origine, mentre altri si vergognavano e rinnovato il loro guardaroba per soddisfare le usanze del luogo. Anche i capi che non erano particolarmente 'Ebrei' sono diventati tali quando le comunità si spostavano da una regione all’altra. Per esempio, in Spagna le donne ebree indossavano vestiti secondo la moda locale, ma quando si trasferirono in Marocco, continuarono a indossare i loro vestiti "spagnoli", marcando così la loro separazione dalla società marocchina generale. Così, l'identità ebraica è stata impressa dall'esperienza di viaggi e migrazioni.

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Abbiamo apprezzato anche la breve discussione di Noam Ben-Yossef Baram sui pantaloni come un indumento femminile. Lei scrive che nel mondo islamico i pantaloni non sono stati considerati un abito maschile, ma un indumento femminile da indossare sotto il vestito per salvaguardare la castità delle donne. Così, i pantaloni erano un segno di pudore, al contrario dei pantaloni occidentali che avevano un significato liberatorio e di indipendenza femminile. E’ interessante che il significato culturale dei pantaloni non dipenda implicitamente dal loro aspetto materiale. L'elemento fisico dei pantaloni, larghi o stretti, decorati o semplici, ha un significato proprio solo nel contesto della società in cui viene indossato.

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Noi pensiamo che questo libro meriti di essere letto non solo come un resoconto storico ma anche per la ricchezza di idee che emergono dalle sue discussioni penetranti dei concetti fondamentali della moda, che vanno oltre la tendenza e il 'look giusto'. I legami estetici e culturali che emergono dal libro mettono la discussione sul “vestito ebraico” in un contesto universale che aiuta a far luce sui principi fondamentali dell’interazione sociale. Inoltre, le splendide foto dei capi forniscono una vera e propria fonte di ispirazione per nuove creazioni di design.

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Il libro è ora accompagnato da una mostra al Museo di Israele a Gerusalemme, a cura di Efrat Shapira Assaf, dove gli indumenti selezionati dalla ricca collezione del museo sono esposti.

Un viaggio mascherato

Molte parole sono state spese a parlare dell’io, il “self”, che è divento in centro della vita moderna: i “Selfie”, Facebook, Twitter, tutto gira attorno alle nostre esperienze e pensieri. Ma questa continua esposizione di se davvero rivela la nostra vera identità? In Ebraico la parola “maschera” è etimologicamente legata a quella di “schermo”, un termine che ha sia il significato di nascondere e rivelare. Ma in Greco e Latino la parola maschera significa “carattere”, che è direttamente collegata a quello di “personalità”.

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Attraverso la storia gli uomini si sono sempre nascosti dietro a maschere: in africa per ragioni rituali, il Grecia e Giappone per performance teatrali, a Venezia per aristocratiche celebrazioni di nobiltà, e nella tradizione ebraica per celebrare Purim. La machera è così popolare perché ci permette di vivere per una notte come qualcun altro, o di essere parte di qualcosa di grande e sublime. Oggi, la chirurgia plastica può darci una machera eterna di gioventù e bellezza, al prezzo di cancellare la vera natura di una faccia e del suo carattere.

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“In un’era volgare come la presente abbiamo tutti bisogno di maschere” diceva Oscar Wilde oltre centocinquant’anni fa. Ma anche oggi, i vestiti sono come maschere che ci danno forza e personalità. Al di là delle mascherate teatrali, i vestiti che indossiamo ogni giorno ci danno un’opportunità di travastire noi stessi. Ma la verità, anche se fastidiosa, deve essere detta: la società ci giudica da cosa indossiamo. I nostri vestiti lasciano immediatamente un’impressione su chi ci sta intorno. Quello che indossiamo può aiutarci a costruire un’immagine ma anche rivelare senza parole le nostre preferenze e la nostra identità. Oscar Wilde si lamentava del bisogno delle persone di fingere e nascondersi dietro ai vestiti.

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Noi vediamo una relazione diversa tra vestiti, maschere e identità. Indossare un vestito tutte le mattine può essere un atto forte se scegliamo qualcosa che rivela al mondo un aspetto della nostra identità. Invece di nasconderci dietro ad una maschera e prendere di essere qualcun altro  ognuno dovrebbe cogliere quest’opportunità per mostrare al mondo qualcosa su se stesso. La maschera di un vestiti può essere un mezzo per comunicare le nostre opinioni, il nostro gusto, la nostra creatività. Per questo è un peccato semplicemente accontentarsi di “seguire la tendenza” o mettere qualsiasi cosa si trovi nel guardaroba (anche se anche queste scelte rivelano qualcosa dalla personalità che ci sta dietro). Come una maschera, il vestito è un modo potente e stimolante per scoprire la propria personalità ed esporla al mondo.

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Photo di Ran Golani per Ilana Efrati, 2014.

Io non ho mai smesso di guardare le nuvole/Ilana Efrati

nuovi testi dalla mostra di tessuti e fotografie di Ilana Efrati.

Semplicità  e sublimazione

פשוט ונשגב

Una foglia gelata si sbriciola su un tessuto semplice e di colori tenui, non più bianco puro. L’intreccio del tessuto rivela le fibre naturali da cui è stato ricavato, e gli dà un’apparenza di usato. Ma improvvisamente alcune brillanti gocce di acqua splendono sulla superficie, bruciata dal gelo, della foglia. Per un istante la foglia è incorporata nel tessuto, ombre pesanti le uniscono  nel tessuto spiegazzato che avvolge la lucentezza dell’acqua. L’atto creativo avvolge la foglia morta, il germoglio fresco e il tessuto in un tocco di armonia. I duri colori dell’inverno – bianco e marrone, argento e grigio – rendono il momento di unione tra la natura e il tessuto unico e irrevocabile. Quando il momento passa, la foglia e il tessuto si sbricioleranno, sparando nel terreno freddo e diventano semplicemente una parte della natura di tutti i giorni.

 

Documentare e intervenire

תיעוד והתערבות

Tra un tessuto di lino a strisce e un sottile foglio di nylon ci sono fiori selvaggi e foglie dell’orto. Come in un antico fioraio, il volume dei fiori è appiattito e la natura è bloccata per un momento in una composizione di colore. Chi un tempo raccoglieva fiori provava anche a documentare, esplorare e catalogare le ricchezze della natura per renderla accessibile fino al lettore in  una biblioteca. Dov’è la linea sottile da tracciare tra il documentare e l’intervenire? L’atto del seccare e appiattire i fiori è diventato un atto di creazione indipendente. Gocce di umidità si accumulano tra I fiori e il nylon, lasciando segni di colore sul testo, la tela ‘neutrale’ su cui seccano i fiori. Ora il tessuto ha un significato tutto suo. Allo stesso modo, il video documenta cosa succede nel giardino ma offre anche un’interpretazione personale dell’intervento umano sulla natura. Le varie attività, tra le piante e il la stampa sul tessuto, tra il giardino e il video documentario, creano una rete complessa di relazione che rompe la distanza tra documentare ed intervenire.

 

Tempo e Memoria

זמן וזיכרון

Come la sabbia ricorda le onde, così anche il cotone ricorda la terra. L’immagine delle zolle di terra è assorbita e resta una lontana memoria. Il tempo è passato e andato, ma i momenti dell’incontro tra la terra e il tessuto rimangono scuri e ombrosi. L’atto della creazione dà al tessuto un l’opportunità di preservare questo momento di continuo presente. La tela è una carta fotografica esposta alla luce, non per un secondo ma per giorni e mesi, attraverso le stagioni. Forse imprimendo grani di terra sul tessuto è possibile fermare il tempo e far rivivere il profumo della terra fresca e i soffusi colori dell’inverno. Ma l’influenza del tempo è universale e non risparmia i segni della terra sul tessuto, che continuano a cambiare a contatto con la luce, l’aria e il sole. Tra il gelo dell’inverno e il calore dell’estate, il tempo diventa temperature. Così, al contrario di un’immobile e fredda fotografia, la memoria della terra impressa sulla tela è destinata a mutare in eterno, parte inseparabile dello scorrere delle stagioni.

Ordine e estetica

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Il processo creativo è un tentativo di cambiare il tessuto e donargli una nuova estetica. Il telo, prima bianco e immobile, cambia quando un atto di forza gli dà volume, movimento, e un nuovo senso estetico. Il tessuto copre e avvolge le ghiande, che vi aggiungono nuovi volumi frastagliati e irregolari. Le ghiande sono nascoste e il colore che vi rilasciano non è immediatamente intuibile, coperto dalla semplicità del tessuto chiaro. Il tessuto mostra i primi segni della creazione che avvengono all’interno, e rappresenta solo un momento di un lungo e complesso processo. Le ghiande sembrano come gemme sul terreno di un giardino, e riempiono il tessuto con reti irregolari di germogli. L’atto della creazione che dà ordine al tessuto, come l’intervento dell’uomo in un giardino, vuole rivelare l’estetica della natura ordinate. In entrambi i casi, il risultato è una nuova estetica, un  ordine pianificato ma senza alcuna  aspirazione di regolarità o perfezione.

Cultura e dominazione

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I bouquet  di fiori dorati riempiono in tessuto, come un reminiscente ricordo delle eleganti tappezzerie di un grande palazzo decadente. I tessuti stampati riportano alla vista le tradizioni decorative dei palazzi italiani, in un equilibrio sorprendente di lussuosità e scoloritura. Gli uomini spesso aspirano a organizzare e ordinare la natura, così che non minacci la tranquillità domestica. L’umanità ha tentato di appropriarsi della natura inserendola nei propri soggiorni in una forma addomesticata, un disegno sul muro. Il tessuto di lino è un immaginario ricordo di tradizioni ormai a lungo abbandonate.  Ma ora il disegno è accidentale e casuale. L’atto della creazione sul tessuto non è un tentativo di addomesticare la natura ma di esporre questo tessuto fatto dalle nostre mani alla natura selvatica, che continuamente evade la dominazione umana.

Duplicità

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Una foglia secca, quasi come un delicato ritaglio di pizzo, lascia un’ombra quasi trasparente su un tessuto di cotone bianco. L’ombra si trasforma in un doppione, una copia leggera dell’originale. Ma il tessuto dà all’ombra una vita tutta sia, una macchia che può diventare una fantasia decorativa sul vestito. Questa duplicità non è una ripetizione ma la creazione di qualcosa di nuovo: una forma stesa e stabile che trasforma la fragilità delicata della foglia e le dà una diversa dimensione. Nel ciclo della natura la foglia ha raggiunto il suo momento di decadenza e decomposizione, e può ora essere usata solo per fertilizzare nuove piante. Ma il doppione lasciato dalla foglia ha incominciato una nuova vita come materia prima da cui nuove idee possono germogliare.  La duplicità della foglia moltiplica il ciclo dei materiali in natura. I materiali naturali hanno una continuità come parti dell’infinito scorrere delle stagioni, e anche come parte del ciclo creativo dell’artista e del designer, che non ha una conclusione predeterminata. Come la foglia appassita, la creazione nasce dal materiale naturale, matura e infine si disperde nella natura per diventare di nuovo materia prima per una nuova crescita.

Lasciare il segno

רן גולני - להשאיר חותם

Nell’attività frenetica della vita moderna tutti vogliono ‘lasciare il segno’, lasciarsi dietro qualcosa che conservi la propria esistenza personale dopo che quella fisica è scomparsa. L’arte è un modo di lasciare il segno, appropriandosi del mondo della natura e rendendolo personale, unico e irripetibile. I tessuti stampati assorbono il segno della natura, dove fiori, foglie e germogli sono stati incorporati e creano minute composizioni. Sul tessuto la mano umana vuole lasciare le proprie impronte: un filo bianco ricamato in filature circolari seguite da astratti bouquet di fiori sparsi sulla tovaglia colorata. La natura ha creato il bozzolo di seta che è diventato tessuto, i fiori selvatici che hanno portato il colore, e i fiori di cotone che sono diventati candidi fili. Ma la mano creativa non è invisibile. Conduce lo sguardo verso la bellezza della natura, il cui segno è ovunque se solo facciamo lo sforzo  di guardare.

Questa settimana vi proponiamo tre testi e immagini dalla mostra di tessili stampati di Ilana Efrati.

Spazi protetti

מרחב מוגן

 Lo spazio chiuso, coperto con un telo di nylon, nasconde foglie e rami dal gelo. La tensione tra il chiuso e l’aperto, tra la libertà e i pericoli degli spazi infiniti, e la sicurezza della casa, e evidente anche nei piccoli spazi formatisi tra il terreno gelato dall’inverno e un’impermeabile coperta trasparente. L’ambiente urbano fornisce, sembrerebbe, una vita piena ed intensa in cui la natura e vinta e controllata. La città rappresenta una fuga da una natura meravigliosa a una più calma e più umanamente controllabile routine. Il design nato in città è perciò inteso come uno spazio sterile caratterizzato da temperature fisse e controllabili che rendono le stagioni irrilevanti. Il passaggio da vita urbana a rurale, che certamente non è come passare alla natura selvaggia, mette in risalto la distanza tra la bolla umana della routine nella città e nella campagna, dove i poteri della natura sono ancora facili da osservare.

Urbano e rurale

urban rural

“Qualità Oro super 120 Made in Italy”. Il tessuto di lana è fatto di sottile e delicate fibre di meno di 18 micron di diametro. Ma non è solo la qualità tecnica del tessuto a essere motivo di orgogli, ne è anche la provenienza: Made in Italy. Il tessuto è testimonianza materiale delle capacità tecniche dell’industria tessile italiana. La geografia ancora definisce il prodotto, e la frase stampata sui bordi dice “L’ho fatto qui”. Davvero il “locale” vuol dire ancora qualcosa in un periodo in cui la tecnologia nullifica la distanza tra paesi e continenti? Questo tessuto rappresenta anche un incontro interessate tra industrie urbane e natura rurale. È stato impresso con fiori e foglie dorate. A prima vista sembra che i colori chiari dei fiori diminuiscano la perfezione del tessuto. Eppure, da questo incontro inusuale tra tessuto e natura nasce un nuovo significato per la frase “luogo d’origine”. La tensione tra la città industriale e la natura rurale genera creatività. È la volontà di rompere le distinzioni tra due mondi che sembrano così distanti nella nostra vita di tutti i giorni. L’atto della creazione vuole distillare le similarità tra natura e umanità come fondazione per una vera e piena unione.

Naturale e artificiale

natural artificial

L’opera d’arte originale imita la natura e crea un’immagine artificiale e costruita.  Il muro di pietra e i segni delle piante sul tessuto rendono viva la tensione tra il naturale e l’artificiale, tra l’autentico e il fasullo. Semplici pietre raccolte nel campo sono state messere insieme dalle mani di un esperto carpentiere per diventare un muro saldo e cesellato. I fiori di prato sono stati raccolti a meno e lasciati sul tessuto di cotone perché ne lasciassero il segno. Le foto sfidano l’osservatore a domandarsi se la natura organizzata può ancora mantenere la sua autentica essenza sotto un nuovo tetto, umano e artificiale. Forse così le ombre sul tessuto e sulla pietra si uniscono un tutto armonioso, anche la creazione umana può diventare parte della natura, e cambiare secondo le stagioni e secondo il sole. Il momento di autenticità si trova così tra il naturale e l’artificiale, e riflette onestà e sincera semplicità.

Le settimane della moda e la società israeliana

Quale è il rapporto da la società e la moda? Per trovare la risposta, siamo tornate a riflettere sulle tre settimane della moda in Israele, inaugurate con gran entusiasmo qualche mese fa a Tel Aviv e Holon.

La nuova moda è nata dalle rovine del settore tessile che operavano nella provincia, tra la disoccupazione e nella totale dimenticanza di tutti (appena due settimane fa l'ultimo impianto industriale tessile di Kitan di Beit She'an ha chiuso i battenti). A vedere le ultime settimane la moda sembra avere poco a che fare con abiti e accessori, e molto a che fare con vanità, lusso e buone campagne pubblicitarie. Se la moda israeliana sembra alzare la testa, grazie alla generosità filantropica di ricchi uomini d'affari la aiutano rinascere, vale la pena ricordare la moda non sono solo interessi commerciali. Gli stessi interessi, peraltro, che avevano l'industria della moda quando sembrava a tutti più economicamente vantaggioso importare  prodotti di lusso dall’estero.

Molti diranno che quando gli investitori (o i filantropi) promuovono l'industria locale fanno un servizio al paese. Forse è così, ma la pomposità e la megalomania di certo non riflettono questo nostro piccolo e fragile settore che soffre di molti problemi, come ad esempio l’eccessiva importazione di moda a buon mercato, centri commerciali che incoraggiano le grandi catene internazionali a scapito dei produttori locali, e campagne pubblicitarie martellanti – spesso dalle stesse compagnie che ora promuovono la moda locale israeliana.

Le settimane della moda, ben tre diverse, moda rispecchiano fedelmente la cultura contemporanea israeliana: self-serving, divisiva, conflittuale e gestita da pubblicitari al soldo dei grandi magnati che cercano di coprire ogni segmento di mercato possibile. Quando il design diventa solo più un veicolo per vendere un prodotto commerciale perde il suo ruolo di creazione indipendente e libera.

La nostra è una realtà culturale in cui, a un cocktail finanziato da un imprenditore facoltoso, il capo della "città-stato", ha annunciato con orgoglio agli ospiti locali e stranieri di aver boicottato la precedente settimana della moda – che era quella ufficiale, finanziati con fondi pubblici, tenutasi nella sala di proprietà comunale e patrocinata dall'Ambasciata italiana. Battibecchi e litigi, boicottaggi e separazioni, rappresentano più che altro i tentativi falliti di creare un’apparenza di rispettabilità. Il danno per l'immagine di Israele e per l'umile nascita dell'iniziativa Fashion Week israeliana, è stato immenso. Questo si collega a molti altri errori culturali, in particolare la mano troppo-facile sull'arma boicottaggio, come abbiamo appreso di questo mese cancellazione imbarazzante e scandalosa della partecipazione del professor Feldhay, testa di Minerva Institute presso l'Università di Tel Aviv, in una visita ufficiale in Germania.

Nel film di Robert Altman  'Qualcosa da indossare’ mostra come il vero dramma della moda non sia sulla passerella  ma dietro le quinte delle sfilate. Non vi è dubbio che l'industria della moda offra un terreno fertile per i desideri, interessi e passioni che si esprimono in creatività e originalità. Eppure, spesso, invece che soddisfare questi desideri, la moda commerciale offre un modo per evitarli.

by Ilana Efrati

by Ilana Efrati

Un Viaggio dalla Galleria alla 'Stazione'

La strada dalla galleria alla ‘stazione’ prende appena dieci giorni: dalla mia esibizione alla Galleria Periscope fino alla Settimana della Moda di Tel Aviv nell’antica stazione di Jaffa. Onestamente non avevo alcuna intenzione di partecipare quest’anno ma la sfida di provare nuove strade mi ha dato la giusta motivazione. È stata una strada interessante. Ho scelto il tema ‘in movimento’ e l’ho sviluppato passo per passo. Ho incominciato selezionando tre tessuti di seta dalla collezione che avevo impresso a mano nel 2011 con piante e fiori del mio giardino umbro. Questi tessuti erano parte dell’esibizione “Non ho mai spesso di guardare le nuvole” alla Galleria Periscope di Tel Aviv. Il 3 novembre l’esibizione era finita. Ho mandato i tessuti originali a una ditta specializzata in Italia dove li hanno scannerizzati e ristampati su seta.

dalla mostra di Ilana Efrati 'io non ho mai smesso di guardare le nuvole', Tel Aviv

Mentre aspettavo i nuovi tessuti, ho creato dei capi di cotone a righe, tagliando e riorganizzando il tessuto rigato in modo da creare nuove forme forme grafiche e geometriche, un lavoro elaborato e possibile solo in alta sartoria. Questi indumenti sono diventati giacche e camicie ispirate alle uniformi della marina. Quando le sete sono arrivate dall’Italia alcuni giorni prima della sfilata, le similitudini con i colori del mare erano impressionanti. Così ho cominciato a pensare che il mare avrebbe dovuto essere il vero tema della sfilata. Sono scesa sulla spiaggia e ho messo ma mia videocamera a Manta Rey, poco a sud di Frieshman a Tel Aviv, e ho cominciato a riprendere le onde e la risacca sulla spiaggia.

Il nostro mare, il Mare Nostrum come lo chiamavano i romani, che dettero alla nostra costa il nome di Palestina. Il nostro mare che unisce tre continenti e attorno a cui diverse culture crescono e si incontrano. A questo punto ho aggiunto un altro taglio alla collezione, un taglio semplice e primitivo come un gallabiah o un caffettano, una tunica lunga come quelle usate dai sultani ottomani che era appartenuta a mia nonna. Un secolo fa anche lei tesseva i propri indumenti, lunghe tuniche di seta. Oggi lo stesso tessuto crea una tensione interessante tra i tagli su misura della moda occidentale e le larghe gallabiah di seta dell’est, con sullo sfondo i colori dell’inverno sul mare e macchie gialle che rappresentano il sole primaverile.

Il multiculturalismo del Medio Oriente, Est e Ovest, morbido e ruvido, ordinato e disordinato, tutto insieme in un’unica piccola collezione fatta di tessuti bianchi e blu, con un tocco del sole dorato medio orientale che brilla su tutti noi quaggiù.

Il giorno prima della sfilata sono riuscita a trovare un momento per concentrarmi sulla musica. Ho scelto la colonna sonora di un festival di musica Jazz di paesi mediterranei come Turchia, Grecia, Marocco, Italia e Portogallo. La voce ricca di un cantante israeliano come Benny Berman aggiungeva il ritmo locale del mare.

Il video sul mare era il background perfetto per la sfilata e i capelli bagnati delle modelle davano l’idea che fossero appena riemerse dalle onde. Durante le prove ero curiosa di capire da dove venissero le modelle. Volevo dare loro l’opportunità di mettere da parte quella maschera alienante per un momento e di essere se stesse, donne e professioniste, con un nome e un paese dietro di loro. Camminando sulla passerella ciascuna ha detto il proprio nome e la città di provenienza: Hong Kong, Stuttgart, Haifa, Kibutz Beeri e molto altro.

La scelta di indossare saldali birkenshtock è venuta naturale e si s’inseriva perfettamente nel tema della sfilata. Ma era anche un atto di umanità verso le modelle che avevano passato tre giorni sfibranti camminando kilometri su tacchi alti. Erano veramente felici!

ATA e noi

ATA è stata a lungo una delle più importante industrie tessili di Israele. Lavorò  per mezzo secolo, dal 1934 al 1985, e diventò uno simbolo dello stile di vita e del design ascetico del giovane stato. Che cosa vogliamo dire parlando di ATA? Vogliamo parlare della sua storia, dei suoi cambiamenti e contraddizioni. I suoi vestiti color khaki erano il simbolo della protesta contro gli standard europei ma erano anche gli stessi colori delle divise del corpo d’occupazione inglese in Palestina. Il movimento zionista adottò i colori degli stessi soldati inglesi contro cui combatteva. Ben Gurion, il padre dello stato di Israele, indossava un’uniforme di battaglia di taglio inglese, prodotta da ATA, per differenziarsi dalle uniformi in giacca e cravatta degli altri europei.

מכנסי כותנת חאקי בהשראת אתא

Drill cotton skirt from a collection inspired by ATA, "Ilana Efrati"

Anche se oggi la memoria di ATA è quella di un modello di design e produzione legata al territorio, l’epoca d’oro di ATA fu breve, sebbene intensa. ATA diede una tenuta alla nuova idea di una nuova società socialista: camicie blu, bianche o cachi. Ma è difficile dire chi diede inizio a questo stile; forse anche ATA seguì quello che era lo stile già comune tra i primi coloni.  Quando l’ideale dei pionieri di disperse e la società israeliana si volse verso altri ideali, anche ATA cambiò e lo stile pionieristico scomparve presto. La fabbrica faticava a sopravvivere perché gli israeliani non volevano più apparire pionieri e i prodotti importati sembravano più “unici” dei design di ATA. I tentativi di produrre tessuti sintetici per donne e bambini furono un insuccesso. LA fabbrica divenne un altro fallimento di gestione e marketing, e la protesta dei lavoratori un altro simbolo delle lotte socialiste. Questo accadde perché la società israeliana stava lentamente prendendo una nuova forma, quella di oggi.

giacca ispirata da ATA, dal catalogo 1998 di Ilana Efrati

ATAinspired skirt by Ilana Efrati

Le fabbriche ATA simboleggiarono per un momento l’ideale Zionista. ATA è l’abbreviazione di “Tessuti prodotti nel Nostro Paese”. Forse fu intenzionale, ma il nome era anche una traslitterazione incorretta del villaggio arabo di Atta, sulle cui rovine fu costruita la fabbrica. Se questo fosse vero non ci sarebbe da sorprendersi. Molte leggende Zioniste sono nate nell’improvvisazione di un momento, aggiustando la realtà all’immaginazione. Ma in meno di un secolo l’ideale Zionista è cambiato radicalmente e la sua essenza si è legata all’Occidente e in particolare agli Stati Uniti. ATA finì con l’essere associata con un simbolo del passato. La risposta di ATA furono nuovi, anonimi, modelli che cambiarono la natura della fabbrica e simboleggiarono un grande cambiamento sociale: una apertura verso il mondo e la perdita dell’unicità locale in nome della diversità di ciascuno. ATA rappresenta l’impazienza di Israele. Con il successo economico le nuove generazioni di israeliani smisero di supportare il brand e immediatamente cercarono dei sostituti.    E tuttavia l’omogeneità del mercato della moda permette l’esistenza di varie marche, non di reali differenze di stile. Quando ATA cercò di entrare nell’economia di mercato e soddisfare la nuova domanda di prodotti il suo fallimento fu immediato. È interessante vedere che il punto di svolta fu proprio la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Le cause del fallimento non furono in realtà né la fabbrica né i suoi lavoratori, ma piuttosto le nuove scelte dei consumatori. Con la stessa rapidità con cui ATA era diventata un mito, la fabbrica sparì assieme allo spirito dei primi coloni Zionisti. La nuova classe media, impiegati di banca e d’ufficio, non vestiva color cachi. Noi vediamo nella storia di ATA e delle sue fabbriche una sorta d’ispirazione. Ci piace la scelta di tessiti color cachi di alta qualità come lo sfondo per uno stile israeliano semplice ed elegante. È adatto al clima e alla semplicità dello stile di vita in paese caldo. Kaki oggi simboleggia una protesta contro l’arroganza degli addobbi eccessivi. Il mito di ATA è incarnato nella sua stessa fabbrica. Ma dietro il mito resta il desiderio sincero di fornire capi di qualità per i lavoratori israeliani, prodotti unici e disegnati in Israele, e di costruire una fabbrica per creare lavoro in questo paese. Con queste aspirazioni ci identifichiamo pienamente, anche senza vedere quelle fabbriche come un miracolo di design nazionale.

The logo of the ATA inspired collection by Ilana Efrati

Viaggi a Tel Aviv

Ci sono molti modi di guardare la città che ci circonda. Tel aviv è una città che si presta alla rivelazioni. Ma è più facile semplicemente abiutuarsi alla città senza interrogarsi sul mondo che nasconde, e sulle voci che si possono sentire solo quando si cercano. Un modo di scoprire la città è guardare alla sua storia, cercando quei momenti che si nascondono tra le vite passate di pionieri e bohemiennes, immigrati e veterani dell’esercito, che insieme hanno dato vita alla “città bianca”.

Catalogo 1995

Tel Aviv dal mare, catalogo 1996

Se vi sembra che i mondi del passato abbiano lasciato posto alla Tel Aviv di oggi senza lasciare alcuna traccia, dovreste cercare tra quelle professioni che collegno presente e tradizione provando che per il progresso non ci può essere innovazione senza preservare la creatività umana. Un altro sguardo rivelerà che la città dove nulla sembra mai fermarsi, dove i palazzi si alzano sempre più alti tra le case antiche, resta una fonte di ispirazione creativa per chi cerca di riscoprire la città nel suo insieme. Questa prospettiva ci mostra non solo una nuova Tel Aviv ma anche un nuovo modo di vedere il nostro rapporto con la città, con il nostro lavoro, e con l’arte di fare vestiti.

Così ogni anno pubblichiamo un catalogo con cui vogliamo condividere le nostre impressioni sulla città e le sue fonti di ispirazione. La ricerca dell’essenza urbana di Tele Aviv per noi è iniziata nel 1995 quando abbiamo messo a confronto i contrasti più duri della città, tra il nuovo e il vecchio, il duro e il morbido, il bello e l’orribile. Ci siamo concentrati sul contrasto tra il dentro e il fuori, su come ciò che è accaduto sulla nostra strada si è riflesso in cosa si produceva nello studio. Abbiamo scelto di enfatizzare il minimalismo della città, le line nitide che caratterizzavano la città nei suoi primi anni e, più avanti, le geometrie delle torri di vetro. Eppure, la città non è nitida, ha sempre qualcosa di impreciso ed è forse questo il suo fascino. Quando il comune annunciò un nuovo progetto per quindici nuovi grattaceli siamo usciti a fotografare il cambiamento.

Tra vecchio e nuovo nel catalogo 1996

Abbiamo incominciato nel centro storico e abbiamo guardato alle botteghe e al loro perfetto contrasto con le nuove sterili e lucide torri. Abbiamo trovato un calzolaio, un  sarto, un cuoco; persone che infondono nel loro lavoro l’esperienza di anni e il piacere della pura creazione.

Un sarto, dal catalogo 1998

Tel Aviv si è rivelata essere non una città di business e spettacolo, ma piuttosto un piccolo villaggio con ancora la passione per la creazione manuale e artistica. Il catalogo documenta lo skyline piatto della città da cui spuntano i primi bulbi e cespugli. Oggi la città sarebbe irriconoscibile.

Un calzolaio di Tel Aviv, catalogo 1998-9

Camicie bianche ad asciugare nella 'colonia americana' di Tel Aviv, catalogo 1998-9

A poche centinaia di metri dalla nostra bottega c’è il mare a cui Tel Aviv sembra dare la schiena: l’incontro tra l’architettura e l’acqua mostra il contrasto tra l’uomo e la natura, un po’ come l’incontro tra un abito e il corpo.

cagalogo 1999-2000

Architettura e mare a Tel Aviv, dal catalogo 1999-2000

E poi c’è Dizengoff Street, la via centro di Tel Aviv su cui si affaccia il nostro negozio. Dizengoff è davvero la strada di una città e molto è stato scritto sul suo carattere unico Niky Davidov, l’architetto che scrisse la prefazione del nostro catalogo, spiegava come questa strada  è diventata negli anni il fulcro della vita culturale di Tel Aviv, una strada per tutti e tutto può accadere. Tra i caffè bohemien, le librerie, i negozi di moda e le panetterie, Dizengoff Street  è ancora l’emblema della Tel Aviv autentica, e non dei grandi magazzini da importo. Abbiamo davvero una connessione emotiva con questa strada e questa città, dove passiamo ogni giorno, pedalando verso il lavoro e verso casa. Fu proprio la strada a fornire lo sfondo del nostro catalogo di ormai un decennio fa.

Bauhaus in piazza Dizengoff , dal catalogo 2001

Dalla libreria, catalog 2001

Dal fiorista ,catalogo 2001.

Quel momento di rivelazione può accadere ancora, nei momenti più inaspettati, in luoghi semplici come le scale di un palazzo Bauhaus, dove lo scorrere di una ringhiera d’acciaio ci riporta alla bellezza semplice e non superba di Tel aviv, chiara di splendore e orgoglio. Questi sono i momenti in cui la città è davvero se stessa e ci concede quella vera ispirazione che è possibile soltanto nel casuale momento della scoperta quotidiana.

Viaggio all'interno

Quando scrivono di moda giornalisti e critici tendono a parare di vestiti da osservatori esterni piuttosto che come coloro che li indosseranno. Evidentemente questo è il risultato del fatto che la moda è vista come una cosa esteriore, nella relazione tra l’estetica del capo e la società in cui è vestito. La moda sono quindi gli aspetti esteri del vestito: forma, colore, dimensioni, taglio, materiali e proporzioni. Ma l’esperienza di indossare un abito non è la stessa cosa di una foto in un giornale di moda.

Giacca di pelle arancione con federa di cotone stampato

L’intenzionale disinteresse nei confronti di chi concretamente indosserà il vestito ci lascia davvero sopresi. Sembra che non ci sia alcuna discussione su aspetti del vestito che sono importanti per chi li indossa, per esempio le fodere e gli interni. Come appare il vestito a contatto con il corpo? Ruvido o levigato, un fragranza fresca o un calore pesante? La moda non è solo un’esperienza visuale ma anche sensuale. Il tocco è tanto importante quando l’aspetto. Ogni giorno tocchiamo l’interno di un vestito quando lo indossiamo  o lo svestiamo. Queste sensazioni sono davvero irrilevanti? In un vestito non sono anche gli interni parte dell’esperienza estetica della moda o sono soltanto un elemento funzionale, lasciato alla tradizione o al caso?

L'interno della giacca di lino

Nel nostro lavoro gli interni sono altrettanto importanti quanto l’aspetto esterno. L’estetica delle federe è intrigante e tutt’altro che irrilevante. Secondo noi un capo di vestiario è un tutt’uno interno ed esterno e l’attenzione verso le parti più nascoste di un vestito è una forma di rispetto verso chi lo indossa. L’impressione esteriore è importante ma non più dell’esperienza sensuale dell’indossarlo.

La federa di seta della giacca di pelle

Riportiamo qui alcune illustrazioni per mostrare la nostra idea. Ma per capire veramente un vestito vi suggeriamo prima di tutto di provarlo, di osservarne le parti più nascoste e di sentire il tocco del tessuto sul corpo.

Viaggio personale a Tel Aviv

Si dice spesso che la vita urbana abbia un ritmo sfrenato, una dinamica di avvenimenti e cambiamenti chiaramente distinta dalla vita rurale. Tel Aviv è indubiamente un tipico esempio. L’andirivieni di Tel Aviv è famoso in tutto il mondo: per tanti è la città che non dorme mai. Ma come tante altre grandi metropoli, anche Tel Aviv è stata benedetta da piccole viuzze dove il canto degli uccelini può ancora essere sentito, e da cortili nascoste dove i fondatori della città hanno piantato cipri alti e fichi ampi. Inoltre l’architettura eclectica della città mette assieme diverse tradizioni stilistiche portate da tutte le parti del mondo. Il risultato è a volte curioso, ma sempre interessante e ispirante. Tel Aviv è sempre stata la nostra fonte di ispirazione.

Nel nostro calmo viaggio mattutino in bicicletta verso il laboratorio, ci siamo fermate per dare uno sguardo. Riportiamo qui gli oggetti della nostra osservazione, in una nuova serie fotografica di Tel Aviv come attraverso i nostri occhi. 

Perché ci piace la lana 

I vestiti sono fatti di tessuto, e i tessuti hanno una loro forma e consistenza. Quando un tessuto tocca ci tocca la pelle ne sentiamo la differenza. Qualche volta la nostra scelta per un particolare indumento dipende da un istintivo senso di piacere del corpo a contatto con il tessuto. Qualche volta le persone ci dicono che la lana “prude” e ci riportano alla mente le memorie di un maglione ruvido o paio di pantaloni troppo duri di qualche anno fa. In fin dei conti “lana” è un termine molto generico che comprende moltissimi tipi e qualità di tessuto. Ma concentriamoci su chi sa come preparare tessuti di lana di ottima qualità, morbidi e sottili.

Francesco, un nostro amico, ci ha portato a visitare la sua impresa di famiglia nel nord Italia. Francesco è orgoglioso delle sue radici, una famiglia di rispettati produttori di tessile. Un numero incalcolabile di vestiti è nato tra questi rotoli di tessuto di ottima qualità. Ci spiega che riconoscere un’ottima lana va oltre il tocco immediato e intuitivo.  La qualità dei materiali che vengono intessuti si può misurare dallo spessore delle fibre. Più sottili sono le fibre, più denso e sottile sarà il tessuto. Lo spessore – il diametro della fibra – si misura in micron. Di solito un tessuto di lana di alta qualità è composto da fibre non più spesse di 17 mircon, meno di due decimi di millimetro. I progressi tecnologici oggi permettono di tessere materiali con lane  più sottili della Nuova Zelanda. Naturalmente anche la densità delle fibre per centimetro quadrato indica la qualità della lana. Tessuto di lana sottile e resistente sono intessuti ad altissima densità, Super 100 o Super 120.

Dal catalogo 'Ilana Efrati', 1997.

Certo, la qualità della lana è solo il primo passaggio per avere un ottimo indumento. Una volta scelto in tessuto, il più denso e soffice possibile, è il momento per sarti e designer di dimostrare la propria immaginazione e abilità, e trasformare ottimi materiali in un capo accattivante. Nulla di più semplice ed elegante della lana.

Viaggio verso l'illusione

Si dice che il mondo della moda sia il mondo delle illusioni. Probabilmente significa che un vestito è sempre in qualche modo un travestimento, qualcosa che rende qualcuno un Nessuno, e trasforma un povero in un principe. Ma c’è anche un altro significato più profondo e più vero sull’industria della moda nel mondo, e in particolare in Israele. Dietro alla seduzione e alla fama si nasconda una verità modesta fatta di fabbriche e operai. Quado dietro al fascino e l’ostentazione non c’è nulla, neppure una sartoria o una piccola fabbrica, l’illusione diventa ancora più cupa e reale.

Negli anni d’oro dell’industria della moda in Israele l’Istituto Israeliano per l’Export istituì la Settimana della moda. L’industria della moda, che includeva marchi come Beged-Or, Kitan e Rikma aveva sostegno, notorietà e prestigio, almeno in ambito locale. C'era un’idea condivisa che la moda e il design sono parte dei valori culturali di una società che protegge i successi della sua giovane industria. Cultura, studio, attenzione e grandi capacità tecniche avevano fatto dell’industria della moda un successo indiscutibile. La Settimana della moda avrebbe dovuto dare all’industria un riconoscimento internazionale.

Tessuto disegnato e prodotto da Kitan, anni sessanta. Collezione privata, Ilana Efrati

Il dietro le quinte di questo evento, nel lussuoso Hilton Hotel di Tel Aviv degli anni settanta, era elettrizzante. Chi assisteva nel backstage, e non erano molti, ricorda ancora la tensione, l’entusiasmo e il trambusto nascosto appena dietro la passerella. Supermodelle del tempo come Karin Dunsky, Hanita Zentner e Kithy Maman erano tutte là.  E con loro i migliori designer israeliani, ormai da tempo dimenticati nel tempo, tra cui Ricky Ben-Ari e il suo braccio destro Shuki Levy. Nervosi ed eccitati facevano gli ultimi ritocchi sui capi che sarebbero apparsi sulla passerella di fronte a giornalisti e compratori di tutto il mondo.

Tessuto disegnato e prodotto da Kitan, anni sessanta. Collezione privata, Ilana Efrati

Ma questi furono anche gli ultimi giorni di un’industrial che si svuotava e collassava mentre società e politica smettevano di investire nella moda. Le produzioni locali furono chiuse insieme alle fabbriche che davano lavoro e rappresentavano il successo industriale e artistico del giovanissimo stato. In pochissimo tempo intere zone industriali furono riconvertite in periferie urbane e centri commerciali. Compagnie come Ata e Kitan aprirono enormi supermercati in cui vendevano a prezzi stracciati prodotti importati. In un attimo la storia della moda israeliana crollò in pezzi. Ricky Ben-Ari, una delle migliori designer della sua generazione andò in fallimento quando non riuscì più a soddisfare le richieste dei compratori stranieri senza il supporto dell’industria nazionale.

Tessuto disegnato e prodotto da Kitan, anni sessanta. Collezione privata, Ilana Efrati

Ancora oggi la moda israeliana sogna un ritorno di successo nel mercato mondiale. Ma è qualche volta importante voltarsi indietro per guardare chi ci ha preceduto e con i suoi sforzi ha posto le basi della moda israeliana.  Si dovrebbe pensare come è stato possibile che siano rimasti solo i designer in cerca di successo, mentre le produzioni sono sparite insieme alla struttura industriale, ai materiali e al sostegno dell’economia e dello stato. Prima di ricostruire vetrine luccicanti sarebbe saggio guardarsi attorno per vedere se esista ancora un mondo di sartorie e fabbriche, o se sia sparito del tutto, lasciandoci una passerella che è poco più di un una decorazione priva di significato.

Tessuto disegnato e prodotto da Kitan, anni sessanta. Collezione privata, Ilana Efrati

* Editore linguistico della pagina: Umberto Marengo

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